Joachim Du Bellay è stato un poeta francese. Negli studi umanistici ebbe condiscepolo e fraterno amico Pierre de Ronsard, in quel sodalizio parigino del collegio di Coqueret da cui nacque la scuola della Pléiade. Esordì nel 1549 con la Difesa e illustrazione della lingua francese (Deffence et illustration de la langue françoise), manifesto della nuova poetica. Dello stesso anno è Oliva (Olive), raccolta di sonetti d’amore petrarcheggianti e neoplatonici che verrà ampliata in edizioni successive. Raccolte di poesie minori, uscite tra il 1549 e il ’53, già contengono a tratti i temi sofferti e le cadenze elegiache e patetiche del poeta più autentico. Tra il ’52 e il ’53 si assiste anche al distacco da un petrarchismo giovanile e di maniera. Nel 1553 Du Bellay seguì a Roma il cardinale Jean Du Bellay, suo zio. Partì pieno d’entusiasmo, ma la realtà della società romana intrigante e corrotta e lo squallore dei compiti affidatigli lo disillusero profondamente. Da questa amara esperienza nacquero i versi più maturi e personali della sua vasta produzione, pubblicati nel 1558 al suo rientro a Parigi: Antichità di Roma (Antiquités de Rome), trentadue sonetti ispirati all’antitesi fra la maestà del passato e la decadenza della Roma del suo tempo; Giochi rustici (Divers jeux rustiques), raccolta di trentotto componimenti di vari metri e argomenti; I rimpianti (Les regrets), il suo capolavoro, raccolta di centonovantun sonetti, frutto dolente e malinconico delle sue deprimenti esperienze quotidiane, e, insieme, quadro satirico della Roma pontificia; i Poematum libri, che ripropongono in irreprensibili versi latini la stessa tematica e una sofferta esperienza amorosa. Du Bellay è, dopo Ronsard, la voce più significativa della Pléiade. Staccandosi via via dai modelli consacrati, latini, greci e italiani, egli seppe esprimere, nelle forme stilistiche volute dalla poetica rinascimentale, una sensibilità originale e singolarmente moderna. Nel suo stile limpido e nervoso si alternano felicemente un repertorio di maliziosa ironia e una struggente vena lirica, al cui centro stanno il rimpianto della terra natale e una pensosa meditazione sulle rovine operate dal tempo. Postumi apparvero alcuni Discorsi (Discours, 1566-67) e i versi latini di Xenia (1569).